LA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA E FISCALE DEI DIRIGENTI ADDETTI ALL'ACCERTATAMENTO TRIBUTARIO NEGLI ENTI LOCALI
di Leonardo Francesco Roberto FERRARA
mailto:avv.leonardo.ferrara@alice.it
§1. Considerazioni generali
Si è sentita negli anni addietro la necessità di dare una nuova regolamentazione alla gestione degli enti locali. Questo è avvenuto con il decreto legislativo del 18 agosto 2000, n. 267, che ha dettato i principi e le regole fondamentali della normativa in materia di ordinamento degli enti locali.
Tale legislazione detta limiti ben precisi per l'autonomia normativa degli enti locali, con conseguente abrogazione delle norme statutarie con essi incompatibili e la necessità che gli enti adeguino i loro statuti entro 120 giorni (termine non perentorio).
Le disposizioni del d. lgs. si applicano ai comuni, alle province, alle città metropolitane, alle comunità montane ed alle unioni dei comuni, nonché, salvo diverse previsioni specifiche, ai consorzi cui partecipano enti locali, con esclusione di quelli che gestiscono attività a rilevanza economica ed imprenditoriale e, qualora previsto in statuto, dei consorzi per la gestione dei servizi sociali.
Nell'art. 156 del d. lgs. n° 267/2000, al fine dell'applicazione delle disposizioni relative all'ordinamento finanziario e contabile, si prevede una classificazione dei comuni in classi demografiche in base alla popolazione residente.
Questa nuova legislazione ha suscitato una serie di articoli, di pubblicazioni e di convegni, tra i più importanti, quello organizzato dal Garante del contribuente della Regione Puglia.
Interventi da cui un attento ascoltatore ha potuto notare che il legislatore ha richiamato la responsabilità amministrativa degli impiegati civili dello Stato, con un chiaro rinvio alla legge n. 20 del 1994, pubblicata in G.U. del 14 gennaio 1994, n. 10, che prevede disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei Conti, nonché competenza esclusiva nell’espletamento dell’azione di responsabilità “contabile”, come sarà di seguito illustrato.
CAPITOLO PRIMO
LA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA FISCALE
DEI DIRIGENTI DEGLI ENTI LOCALI, AMMINISTRATORI E DIPENDENTI
§ 1 La responsabilità amministrativa fiscale dei dirigenti negli enti locali
L'art. 93, co. 1°, del d.lgs. del 18 agosto 2000, n° 267, prevede: «per gli amministratori e per il personale degli enti locali si osservano le disposizioni vigenti in materia di responsabilità degli impiegati civili dello Stato».
In tema di responsabilità risarcitoria di amministratori ed impiegati di enti territoriali minori, per danno arrecato al medesimo, la giurisprudenza della Corte dei Conti non dà possibilità di distinguere tra responsabilità per atti di gestione diretta del patrimonio di detti enti, e responsabilità amministrativa c.d. generica.
La succitata norma prevede che la responsabilità degli amministratori e dipendenti dei comuni e delle province è personale e non si estende agli eredi, salvo il caso di illecito arricchimento del dante causa e conseguente degli stessi eredi, prevedendo una fattispecie di presunzione di indebito arricchimento a loro carico; e, pertanto, su un piano strettamente processuale spetta al procuratore agente (il p.m.) l'onere di provare il solo illecito arricchimento del dante causa, incombendo agli eredi l'onere della prova contraria del loro "conseguente" indebito arricchimento, ex art. 2697 c.c.. L'azione di responsabilità si prescrive in cinque anni dalla commissione del fatto. La legittimazione attiva spetta al procuratore della Corte dei Conti il quale ai sensi dell’art. 1 L.n. 20/94, ha il potere-dovere di proporre l’azione di responsabilità. Questo, chiaramente, ne determina la giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti nelle tematiche contabili della P.A., e di ciò che attiene in qual modo alla pubblica spesa.
§ 2. Imputazione della responsabilità ad amministratori e dipendenti
Ai fini dell'imputazione di responsabilità, ha importanza il reale, anche se illegittimo, esercizio dei poteri degli amministratori da parte di soggetti che in base alle norme ed ai provvedimenti organizzativi esplicativi della stessa non sarebbero competenti. In questi casi all'organo competente può attribuirsi una responsabilità per aver consentito che altri esercitassero le proprie funzioni, che non assorba la responsabilità per i singoli fatti di gestione illeciti, i quali vanno imputati al suo autore, quindi corresponsabile.
a) Segretario e dipendenti
La responsabilità del segretario comunale e provinciale che partecipa, con funzioni consultive e di assistenza, alle riunioni del consiglio e della giunta (quando esprima parere di regolarità tecnica sulle deliberazioni da prendere nel caso in cui l'ente non abbia responsabili di servizio specifici) è dalla giurisprudenza individuata non solo alla attività svolta ma anche in riferimento al principio di buona amministrazione e di regole di ordinaria prudenza.
Infatti il segretario svolge ai sensi dell'art. 97 d. lgs. 18/8/2000 n. 267 compiti di collaborazione ed in particolare "funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti".
Pertanto si ha una funzione consultiva, referente e di assistenza che comporta comunque la formulazione dei propri avvisi in materia, i quali comportano un'imputazione di corresponsabilità in caso di mancato e scorretto esercizio di detta funzione, poiché il parere ha una oggettiva ed autonoma valenza procedimentale, in quanto assume un ruolo causale efficiente nel venire ad esistenza dell'atto illegittimo e dei suoi effetti pregiudiziali.
In senso contrario solo poche pronunce della Corte dei Conti, affermano, in riferimento alla sola consulenza, che questa non comporti responsabilità, escludendo imputazione per carenza di colpa grave.
E' stata riconosciuta, per giurisprudenza pacifica, la responsabilità del segretario nella fattispecie di omessa o ingannevole assistenza al capo dell'amministrazione comunale.
Nel caso in cui il segretario esprima parere in senso proprio, ex art. 49 d.lgs. n. 267/2000, perché l'ente non ha funzionari responsabili dei servizi, risponde come questi in via amministrativa e contabile dei parere espressi, per la "sola regolarità tecnica e contabile".
Secondo la più recente dottrina l'espressione normativa "sola regolarità tecnica e contabile" va interpretata nel senso che il termine "sola" esclude che la regolarità tecnica e quella contabile possano coincidere con la valutazione di legittimità della proposta di deliberazione, la quale evita che siano prese scelte di merito, proprie degli organi di governo degli enti locali. Il parere tecnico e contabile deve avere un contenuto necessariamente diverso. Infatti per regolarità tecnica non sta a significare conformità alle discipline tecniche in senso stretto e quindi non coinvolge solo i servizi tecnici, ma tutti i servizi nei quali si articoli l'amministrazione dell'ente locale in base alle norme di organizzazione.
Si osserva che il termine "regolarità" ha una estensione da un lato minore, dall'altro maggiore di quello di "legittimità".
Regolarità tecnica significa conformità alle regole che sono proprie di ciascun servizio e ne disciplinano l'attività, infatti sotto questo aspetto vi possono essere elementi di legittimità che esulano dalla regolarità tecnica. Si pensi ai problemi di competenza degli organi di governo locale ed alla stessa competenza dell'ente locale nelle materie oggetto di deliberazione, in quanto la regolarità tecnica può avere un contenuto maggiore della legittimità, perché può riguardare quelle regole non legislative, ma di buona amministrazione dettate dalla tecnica propria di ciascun settore.
Si ritiene che l'espressione di un parere in forma esplicita è adempimento dell'obbligo d'ufficio e non ha rilievo la mancata partecipazione all'adozione della delibera. E' esclusa la responsabilità del segretario quando per ragioni di competenza a seguito di un'attestazione di un ufficio, si conformi a questo ed esprima così il suo parere, non è imputabile, poiché non sussiste a suo carico l'onere di verificare nel merito le precedenti fasi del procedimento ed analogamente è da dover ritenere l'assenza di responsabilità, quando rispetto ai pareri dei responsabili dei servizi interessati prevalga quello di un legale di fiducia dell'ente.
b) Responsabilità degli amministratori
La responsabilità esclusiva degli amministratori, è da configurarsi nei casi di adozione di deliberazioni in contrasto con gli avvisi espressi da funzionari e dipendenti. Avvisi che vanno valutati nel loro complesso, per cui assumono valore discriminante per chi li ha resi, quale che sia la formula adottata nel "dispositivo", quando nel testo siano espresse perplessità di ordine contabile e giuridico che portano ad escludere la responsabilità e quindi a riversarla sugli amministratori.
Tenuto conto che se pur i pareri sono correttamente ispirati alle norme di diritto, gli amministratori possono discostarsene esercitando il loro potere discrezionale, ma ciò deve essere debitamente motivato con delle indicazioni che consentano di ricostruire l'iter logico seguito per pervenire alla decisione.
Da precisare che con il nuovo sistema delle autonomie locali e con il recepimento dei principi del d. lgs. n. 29/93, le responsabilità dell'apparato burocratico concorrono con quelle degli amministratori e si distinguono in relazione ad un criterio di ripartizione dei compiti, secondo cui agli organi politici compete la programmazione degli obiettivi da raggiungere e la responsabilità derivante per il mancato raggiungimento dei risultati; all'apparato burocratico, di contro, è riservata l'attività di gestione e la responsabilità che ne consegue.
In pratica si può avere corresponsabilità tra amministratori e dipendenti in caso di conformità tra deliberazione e pareri tutti aventi contenuto illecito, in presenza di una cosciente consapevolezza, o grave negligenza dove l'inesattezza del parere tecnico o contabile o di legittimità si presenti con tale evidenza che anche gli amministratori avrebbero dovuto accorgersene.
Altra ipotesi di corresponsabilità è ipotizzabile per il caso di mancato esercizio del potere di vigilanza riconosciuto esistente a carico del sindaco nei comuni di piccole dimensioni. Per questa imputazione di responsabilità è necessaria una specifica attività, ovverosia deve essere provato che il sindaco abbia coscientemente e illegittimamente ricusato atti del suo ufficio predisposti dalla burocrazia comunale o si sia ingerito illegittimamente in procedimenti gestori condizionandone l'iter o il risultato; inoltre, che dalla sola posizione funzionale di vertice del sindaco non può farsi derivare una responsabilità oggettiva per omissioni altrui, dovendosi provare un comportamento soggettivo caratterizzato da colpa grave.
Ma ben può ravvisarsi una sorta di responsabilità commissiva mediante omissione essendo l’amministratore e il dirigente dovuti ad una attività gestoria dell’ente locale nel suo complesso, essendo anche, quest’ultimo, la prima forma di aggregazione collettiva dei singoli cittadini ed avendo una maggiore visibilità di altri enti, perché d’immediato contatto con la comunità ad esso sottostante. Pertanto il loro comportamento dovrebbe imprimere sulla collettività un’idea comune che faccia sentire l’imposizione fiscale come un valore sociale positivo interno alla stessa collettività e non come un’imposizione esterna voluta da un ente visto come qualcosa di estraneo alla collettività che esso stesso governa.
§ 3. L'elemento psicologico e il danno
In base alla normativa, art. 93 d. lgs. 267/2000 e art. 18 D.P.R. n. 3/57, con cui si opera un richiamo alle norme sugli impiegati di Stato, è pacifico che per configurarsi una responsabilità deve esserci necessariamente un danno.
Già da tempo la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha dettato dei punti fermi, in particolare con la sentenza del 23 marzo 1983, n. 72, in cui afferma:
• "non si può considerare che ogni spesa effettuata senza il rispetto delle norme prestabilite cagioni ipso iure all'ente pubblico un nocumento patrimoniale pari all'importo delle stesse spese";
• non è da ipotizzare una duplicità di giudizio (quello contabile e l'actio de in rem verso) perché un unico giudizio necessariamente avente ad oggetto il danno deve svolgersi innanzi al magistrato contabile;
• il richiedere, ai fini della responsabilità, il requisito del danno patrimoniale effettivo, "consente al giudice contabile di considerare l'importo della somma la cui erogazione è risultata utile all'ente pubblico, in modo che la condanna dell'amministratore venga limitata soltanto alla differenza e quindi, in sostanza, esclusivamente al nocumento patrimoniale effettivamente subito dalla pubblica amministrazione".
I nuovi principi in tema di attribuzioni agli enti locali e soprattutto il principio di sussidiarietà, hanno privato di interesse concreto la vecchia tematica del danno nelle gestioni locali, che lo delimitava ai casi di carenza di potere di spesa e di disutilità della spesa stessa. Per ciò che concerne la carenza di potere, questa è divenuta una ipotesi molto marginale. Per quanto riguarda l'elemento della disutilità c'è da dire che la spesa pubblica viene imputata all'ente pubblico in sé e con le correlate conseguenze.
La spesa, che non è stata vagliata con l'accertamento dell'utilità, diviene una erogazione per la quale non è stata accertata la conformità alle esigenze della collettività alla cui soddisfazione i beni dell'ente locale sono destinati, nella necessaria graduazione delle esigenze stesse in rapporto alle disponibilità, e di importo proporzionale alla utilità che il bene e il servizio hanno apportato.
In questo quadro deve comprendersi la fondamentale utilità del bilancio di previsione ed il vaglio preventivo di una determinata spesa per il raggiungimento di un obiettivo, bene o servizio, di necessità della collettività.
Da ciò par chiaro che una spesa non prevista in bilancio preventivo ha in sé l'elemento del procurato danno, salvo dimostrarne l'utilità, infatti la stessa Corte dei Conti ha da tempo affermato che esisterebbe un danno da erogazione di somme per finalità previste in bilancio, cioè per spese rientranti nelle finalità dell'ente locale sussiste solo quando sia provata non la illegittimità della concreta erogazione, ma la sua specifica discutibilità.
In definitiva in tema di danno, fondamentale è il precetto che stabilisce debba essere distratto dall'importo del danno addebitabile agli amministratori e dipendenti pubblici il vantaggio conseguito in base al fatto illecito dell'amministrazione o della collettività amministrata. Sull'elemento psicologico si deve avere una limitazione della responsabilità ai soli casi di dolo e colpa grave.
Si ha dolo quando la lesione dell'interesse protetto è portato con coscienza e volontà dell'evento lesivo, mentre si ha la colpa grave nei casi in cui l'atto lesivo ovvero il comportamento del soggetto agente nasce per somma negligenza, imprudenza, imperizia ed a causa della violazione delle usuali norme di condotta. Più specificamente il giudice contabile ha affermato che la colpa grave si concreta in un comportamento connotato dalla volontarietà degli atti posti in essere, ed anche dalla negligenza, la quale potrà consistere in una straordinaria deficienza volitiva che appalesi il disprezzo dei doveri di comportamento più elementari, ma che, avendo presente il dovere dell'agente pubblico di ottemperare ai propri doveri con il massimo grado della lealtà e di capacità, la valutazione della gravità della colpa (ovvero della gradazione colposa) deve essere tanto più rigorosa quanto più elevata è la qualificazione culturale e professionale dell’agente pubblico e, al contrario, tanto meno rigorosa quanto minor spessore è la competenza giuridica amministrativa dello stesso.
Da ritenere che per competenza giuridica amministrativa la Corte dei Conti nella sua giurisprudenza voglia fare riferimento alla competenze funzionale in base alle mansioni lavorative svolte, per cui un impiegato di categoria “B” che venga distaccato all’espletamento di mansioni superiori, di un impiegato di categoria “C”, risponda con lo stesso grado di colpa di quest’ultimo e non con minore intensità.
Del resto ritengo che quando la stessa Corte parli di qualificazione professionale degli amministratori e dipendenti, debba sempre riferirsi alla mansione svolta.
§ 4. Cause di esclusione della responsabilità
Si hanno cause di esclusione di ogni responsabilità per forza maggiore o per caso fortuito, come del resto acclarato anche dal giudice contabile. Altra causa di giustificazione ed esimente della responsabilità è stata individuata nell’errore scusabile, il quale ha trovato frequente applicazione nella giurisprudenza, soprattutto in riferimento all’oggettiva difficoltà d’interpretazione di una norma, ed all’erronea, ma giustificata, convinzione della legittimità dell’atto sottostante alla delibera adottata.
Infine la giurisprudenza della Corte dei Conti ha ulteriormente previsto come esimente della responsabilità anche l’insufficienza del personale e le carenze strutturali ed organizzative della amministrazione.
Quest’ultima causa di giustificazione data dalla Corte dei Conti, anche se a sezioni riunite, dovrebbe essere rivista in un’ottica di cambiamento degli assetti degli enti locali, in quanto se prima le carenze strutturali ed organizzative erano determinate, in tutto od in parte, da volontà esterne all’ente locale, oggi con la continua devoluzione dei poteri e le maggiori funzioni trasferite per la raccolta del fabbisogno direttamente all’ente locale, sembrerebbe che questa causa di giustificazione debba paradossalmente tramutarsi in un aggravante, proprio perché oggi gli enti locali hanno, ed avranno sempre più, i mezzi finanziari per far fronte alle loro esigenze di gestione sia dal punto strutturale che dell’approvvigionamento di personale.
CAPITOLO SECONDO
LA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA FISCALE
DEI DIRIGENTI DEGLI ENTI LOCALI NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO
§ 1. Mancata applicazione e riscossione di tributi
Ai fini della declaratoria di responsabilità necessita l'esistenza di un danno derivante da inadempimento degli obblighi di legge ed inosservanza dei vincoli in tema di gestione delle entrate.
In quest'ottica il danno va determinato dal giudice con valutazione equitativa, in base ad elementi presuntivi ex art. 1226 cod. civ., valutazione che a volte è effettuata con la riduzione dell'addebito.
E' pacifico in giurisprudenza che la determinazione equitativa del danno può essere fatta, dal giudice, quando lo stesso danno è certo.
L'accertamento di ciò va compiuto sugli elementi offerti dalla parte attrice, per cui questa deve fornire la prova della esistenza ontologica del danno, che può essere data anche con presunzioni, purchè queste siano gravi, precise e concordanti, sorrette da elementi e dati idonei a dimostrare l'aumento della base impositiva cui il tributo era da ragguagliare e delle stesse previsioni di bilancio. Non è stato ritenuto sufficiente la comparazione alla situazione di enti locali territoriali ritenuti similari, qualora non vengano fornite prove circa l'identità delle caratteristiche socio-economiche, strutturali ed ambientali dei vari enti, nonchè circa l'uguaglianza o l'omogeneità dei bisogni e delle potenzialità produttive delle rispettive popolazioni.
Necessita fare una distinzione tra l'ipotesi di trascurata applicazione e quella di trascurata riscossione.
Nei casi di trascurata applicazione d'imposta, è mancato in tutto od in parte il momento accertativo dell'entrata, non la diversa fattispecie di ritardo nell'accertamento, perchè, dove sia ancora possibile l'accertamento, non può essere azionata una azione di responsabilità, per intervenuta sanatoria.
Per la prova dell'esistenza di un danno certo ontologicamente nei casi di trascurata imposizione dei tributi, va rilevato che questa certezza non può essere diversa da quella che è alla base degli accertamenti d'imposta che dovevano essere fatti e che non sono stati fatti. E' noto che gli accertamenti non sono definitivi e che il loro ammontare si determina a seguito di un lungo procedimento ed a volte anche a seguito di contenzioso. Pertanto richiedere una prova di certezza della qualificazione operata in via sostitutiva con la consulenza o con l'indagine maggiore di quella che si richiede per gli accertamenti è alquanto eccessivo.
La certezza del danno è così frutto di una valutazione differenziale, da una parte l'idoneità obiettiva della stessa entrata, dall'altra l'attendibilità tecnica e concreta della qualificazione presuntiva, offerta dall'attore nel giudizio di responsabilità, non del danno, ma dell'omesso accertamento.
La trascurata riscossione di tributi si ha quando, attuatane nei modi di legge l'applicazione, si sia omesso il solo fatto della riscossione, cioè le fasi del procedimento di acquisizione di entrate che seguono la definitività degli accertamenti. In questa ipotesi, salva l'inesigibilità, vi è sia certezza ontologica del danno, come richiesto dalla dottrina, sia sulla qualificazione.
Anche se in qualche caso la giurisprudenza chiede all'attore (il p.m.) ulteriori prove relative al fatto che, qualora attuata, la riscossione omessa avrebbe portato a realizzare importi di entrata inferiori agli accertamenti. Questo in quanto tra l'accertamento e l'esazione dell'imposta si frappongono una serie di accadimenti legislativamente disciplinati, quali i ricorsi alle commissioni tributarie ed i concordati, che rendono non solo incerto il dato ma anche suscettibile di diminuzione il quantum dell'imposta prevista.
La giurisprudenza ha affermato, inoltre, che la previsione della mancata riscossione ricomprende i casi in cui una imposta sia stata deliberata ma non riscossa, e casi in cui i ruoli siano stati regolarmente formati ma la riscossione del tributo sia stata omessa o sia stata parziale, a nulla rilevando che il costo del servizio sia superiore al gettito dell'entrata, e casi in cui le fasi dell'accertamento e della riscossione non siano state proprie degli enti locali ma di uffici dell'amministrazione finanziaria.
In tutti questi casi nella determinazione del danno bisogna tener presente anche l'effetto che la mancata entrata determina nella situazione di cassa e quindi la possibilità che questo sia un motivo per ricorrere ad anticipazioni, con la conseguenza di un aggravio d'interessi per l'ente locale.
§ 2. Mancata applicazione e riscossione di entrate da trasferimenti
In caso di trasferimenti dallo Stato o dalle regioni configura una responsabilità in forza del fatto della mancata acquisizione di una entrata, implicando una rinuncia, vietata, ad acquisire disponibilità per il soddisfacimento degli interessi della collettività.
In quest'ipotesi se pur il danno è pacifico che si quantizza nell'importo della stessa entrata, per ciò che concerne la responsabilità vi sono dubbi. Infatti se da una parte la giurisprudenza afferma che sussiste colpa grave degli amministratori che, in violazione dell'art. 55 legge n. 142/90, abbiano omesso la tempestiva acquisizione in entrata del contributo regionale a fondo perduto che avrebbe potuto, nel caso di specie, supportare un impegno contrattuale assunto dal comune verso terzi, evitando la formazione di interessi da ritardo nei pagamenti. Dall'altra la Corte Costituzionale ha affermato che di fronte ad un orientamento legislativo volto a salvaguardare la sfera dell'autonomia gestionale degli enti locali ed a rendere nel contempo recessivo il criterio dei vincoli rigidi di copertura percentuale dei costi dei servizi, non è contrario al principio di ragionevolezza né all'art. 97 Cost., l'art. 3, co. 2°-ter, d.l. 23 ottobre 1996, n. 543, convertito con modificazioni dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, là dove si stabilisce che il mancato rispetto dei parametri legislativamente determinati, in tema di copertura del costo dei servizi, più non costituisca in sé fonte di responsabilità amministrativa, riconducendosi, in tal modo, le determinazioni sul grado di copertura nell'area della discrezionalità, sottratta, quest'ultima, al sindacato di responsabilità proprio dell'art. 3 in relazione al quale si sono a torto censurate le norme succitate.
A seguito di questa pronuncia, la giurisprudenza della Corte dei Conti si è adeguata in forza al principio che, a seguito delle disposizioni di cui all'art. 3 d.l. 543/96, convertito in legge n. 639/96, nel giudizio contabile non è proponibile l'azione di responsabilità amministrativa contro amministratori degli enti locali sia per la mancata copertura del costo minimo dei servizi pubblici, sia per la minore entrata connessa alla copertura inadeguata del servizio.
Del resto il fatto, in un contesto di finanza pubblica allargata, ha caratteristiche di neutralità, perché alla mancata acquisizione di entrate da parte del comune corrisponde una mancata erogazione di spesa da parte del Ministero dell'Interno; e, pertanto, pur essendo il fenomeno un grave indizio di una gestione non conforme al principio di buon andamento sancito dall'art. 97 Cost., non si configura a riguardo una fattispecie di illecito contabile per danno all'erario.
§ 3. La responsabilità dei dirigenti nella tutela dei diritti di credito dell'ente locale
La responsabilità nella gestione dei diritti di credito dell'ente è anch'essa sottoposta ai principi di legalità, imparzialità e buon andamento. Per cui potremmo definire un atto dovuto la messa in mora del debitore, quale atto formalmente obbligatorio; potremmo anche affermare che l'ente non può semplicemente rinunciare a far valere, ai sensi dell'art. 2937 c.c., la prescrizione di un credito vantato da terzi nei suoi confronti. Anche se in alcuni casi è ammessa, qualora la rinuncia all'eccezione di prescrizione del credito risulti rispondente a principi di equità e di giustizia sostanziale.
Ulteriormente non esiste la responsabilità del funzionario che ometta di interrompere la prescrizione relativa ai diversi crediti erariali, qualora si verta in una situazione di incertezza interpretativa e di giurisprudenza oscillante in merito alla normativa da attuare.
Infine, deve tenersi presente che è responsabile il sindaco che ometta di vigilare sugli uffici comunali affinché provvedano tempestivamente a costituire in mora il debitore se si sia verificata la prescrizione, solo se, posta l'esiguità delle strutture comunali, gli inadempiuti obblighi di direzione, stimolo e vigilanza, incombessero al sindaco, in quanto vertice dell'amministrazione comunale.
Comportamento questo caratterizzato da un qualcosa in più della semplice “culpa in vigilando”, proprio perché l’esiguità della struttura imponendo al sindaco un “facere” nella sua trasgressione è possibile ravvisare un’imputazione a titolo di dolo, il quale astenendosi da un comportamento dovuto commette un illecito, essendo, ai fini del rapporto di causalità, sufficiente che il soggetto agente abbia posto in essere una qualsiasi condizione dell’evento.
CONCLUSIONI
La stabilizzazione dell'indirizzo giurisprudenziale, in virtù delle innovazioni normative dell'ordinamento delle autonomie locali del 1990, confermate in termini generali dalla riforma della giurisdizione contabile della Corte dei Conti del 1994 e 1996, in riferimento alla disposizione del d.lgs. n. 267/2000 concernente la responsabilità patrimoniale degli amministratori e dipendenti degli enti locali, sanciscono una identità normativa con la disciplina degli impiegati civili dello Stato legge n. 3/57 e d. lgs. n. 29/93, sottoponendo il tutto al controllo del giudice contabile che esercita l'azione di responsabilità (art. 1, L. n. 20/94) limitatamente a condotte commissive od omissive commesse con dolo o colpa grave. Con un preponderante limite d'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali.
Tale previsione codifica un indirizzo già esistente nella giurisprudenza contabile, secondo il quale il sindacato sulle scelte discrezionali dei pubblici agenti può essere portato dal giudice contabile entro i limiti dell'eccesso di potere senza sostituirsi nelle valutazioni e negli apprezzamenti all'autorità competente.
In particolare il giudice contabile non può sindacare perché l'amministrazione abbia effettuato una scelta piuttosto che un'altra, ma, effettuata la scelta, il giudice contabile può valutare l'oggetto ed il contenuto della scelta stessa in punto di legittimità nei limiti della razionalità e delle figure dell'eccesso di potere e nel rispetto dei principi di logicità, di obiettività e di giustizia.
In conclusione, da quanto qui analizzato, si può pienamente concordare con la pronuncia della Corte dei Conti affermando che "agli amministratori ed ai dirigenti, cioè ai soggetti posti ai vertici di una struttura amministrativa, non possono (salvo prova contraria di coinvolgimento) essere contestate irregolarità o mancanze nella puntuale trattazione dei singoli affari, quanto, piuttosto, carenze e deficienze del modulo organizzativo e nelle predisposizione dei necessari controlli, dovendosi escludere ogni responsabilità allorquando abbiano adottato idonei sistemi di lavoro e opportune direttive di servizio, valide ad organizzare l'ufficio con criteri di razionalità.
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